lunedì 15 ottobre 2007

Eneide libro secondo


Stavan taciti, attenti e disïosi d'udir già tutti, quando il padre Enea in sé raccolto, a cosí dir da l'alta sua sponda incominciò: «Dogliosa istoria e d'amara e d'orribil rimembranza, regina eccelsa, a raccontar m'inviti: come la già possente e glorïosa mia patria, or di pietà degna e di pianto, fosse per man de' Greci arsa e distrutta. E qual ne vid'io far ruina e scempio: ch'io stesso il vidi, ed io gran parte fui del suo caso infelice. E chi sarebbe, ancor che Greco e Mirmidóne e Dòlopo, che a ragionar di ciò non lagrimasse? E già la notte inchina, e già le stelle sonno, dal ciel caggendo, a gli occhi infondono: ma se tanto d'udire i nostri guai, se brevemente di saver t'aggrada l'ultimo eccidio, ond'ella arse e cadeo, benché lutto e dolor mi rinnovelle, e sol de la memoria mi sgomente, io lo pur conterò. Sbattuti e stanchi di guerreggiar tant'anni, e risospinti ancor da' fati, i greci condottieri a l'insidie si diêro; e da Minerva divinamente instrutti, un gran cavallo di ben contesti e ben confitti abeti in sembianza d'un monte edificaro. Poscia, finto che ciò fosse per vóto del lor ritorno, di tornar sembiante fecero tal, che se ne sparse il grido. Dentro al suo cieco ventre e ne le grotte, che molte erano e grandi, in sí gran mole, rinchiuser di nascosto arme e guerrieri a ciò per sorte e per valore eletti. Giace di Troia un'isola in cospetto (Tènedo è detta) assai famosa e ricca, mentre ch'Ilio fioriva. Ora un ridotto è sol di naviganti e di navili, infido seno, e mal sicura spiaggia. Qui, poiché di Sigèo sciolse e spario, la greca armata si rattenne, e dietro appiattossi al suo lito ermo e deserto: e noi credemmo che veracemente fosse partita, e che a spiegate vele gisse a Micene. Onde la Teucria tutta, già cotant'anni lagrimosa e mesta, volta ne fu subitamente in gioia. S'aprîr le porte, uscîr d'Ilio e d'intorno le genti tutte, disïose e liete di veder vòti i campi e sgombri i liti, ch'eran coverti pria di navi e d'armi. "Qui s'accampava Achille, e qui de' Dòlopi eran le tende, ivi solean le zuffe farsi de' cavalieri e là de' fanti" dicean parte vagando; e parte accolti facean mirando al gran destriero intorno meraviglie e discorsi: e chi per sacro, e chi per esecrando il vóto e 'l dono avean di Palla. Il primo fu Timete a dir ch'entro le mura, e ne la ròcca quindi si conducesse, o froda, o fato che ciò fosse de' miseri Troiani. Ma Capi e gli altri, il cui piú sano avviso o per insidïose, o per sospette, quantunque sacre, avea le greche offerte, voleano o che del mar fosse nel fondo precipitato, o che di fiamme ardenti si circondasse, o che forato e lacero gli fosse il petto e sviscerato il fianco. Stava tra questi due contrari in forse in due parti diviso il volgo incerto; quando con gran caterva e con gran furia da la ròcca discese, e di lontano gridò Laocoonte: "O ciechi, o folli, o sfortunati! agli nemici, a' Greci date credenza? a lor credete voi che sian partiti? e sarà mai che doni siano i lor doni, e non piú tosto inganni? Cosí v'è noto Ulisse? O in questo legno sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina contra alle nostre mura, o spia per entro ai nostri alberghi, o scala o torre o ponte per di sopra assalirne. E che che sia, certo o vi cova o vi si ordisce inganno, ché de' Pelasgi e de' nemici è 'l dono". Ciò detto, con gran forza una grand'asta avventogli, e colpillo, ove tremante stette altamente infra due coste infissa: e 'l destrier, come fosse e vivo e fiero, fieramente da spron punto cotale, si storcé, si crollò, tonogli il ventre, e rintonâr le sue cave caverne. E se 'l fato non era a Troia avverso, se le menti eran sane, avea quel colpo già commossi infiniti a lacerarlo, e del tutto a scovrir l'agguato argolico: ond'oggi e tu, grand'Ilio, e tu, diletta Troia, staresti. Ma si vide intanto de' pastor paesani una masnada venir gridando al re, ch'ivi era giunto, e trargli avanti un giovine prigione ch'avea dietro le mani al tergo avvinte. Questi era greco; e da' suoi Greci avea di salvare il destrier, d'aprir lor Troia assunto impresa; e per condurla, a tempo ascosto, a tempo a quei pastori offerto s'era per se medesmo, in sé disposto e fermo di due cose una a finire, o quest'opra, o la vita. A ciò concorso, per desio di vedere, il popol tutto dal caval si distolse, e diessi a gara a schernire il prigione. Or ascoltate le malizie de' Greci; e da quest'uno conosceteli tutti. Egli nel mezzo cosí com'era a le nemiche schiere, turbato, inerme e di catene avvinto, fermossi: e poi che rimirolle intorno, con voce di pietà proruppe, e disse: "Or quale o terra, o mare, o loco altrove sarà, misero me! che mi raccolga, o che m'affidi omai? poiché tra' Greci non ho dov'io ricovri, e da' Troiani non deggio altro aspettar che strazio e morte?" Ne commosse a pietà, n'acquetò l'ira sí doglioso rammarco: e con dolcezza e con promesse il confortammo a dire chi, di che loco e di che sangue fosse, e che portasse, e qual fidanza avesse a darnesi prigione. Egli, in tal guisa assecurato, al re si volse e disse: "Signor, segua che vuole, in tuo cospetto io dirò tutto; e dirò vero. E prima d'esser greco io non niego; ché fortuna può ben far che Sinon sia gramo e misero, ma non già mai che sia bugiardo e vano. Non so se, ragionandosi, a gli orecchi ti venne mai di Palamède il nome, che nomato e pregiato e glorïoso, e da Belo altamente era disceso; se ben con falso e scelerato indizio di tradigion, per detestar la guerra, ei fu da' Greci indegnamente occiso: com'or, che ne son privi, i Greci stessi lo piangon tutti! A questo Palamede, a cui per parentela era congiunto, il pover padre mio ne' miei prim'anni pria per valletto nel mestier de l'armi poi per compagno a questa guerra diemmi. Infin ch'ei visse, e fu 'l suo stato in fiore, fioriro anco i miei giorni; e l'opre e 'l nome e 'l grado mio ne fûr talvolta in pregio. Estinto lui (che per invidia avvenne, com'ognun sa, del traditore Ulisse), amaramente il piansi. E 'l caso indegno d'un tanto amico, e la mia vita oscura tra me sdegnando, come soro e folle ch'io fui, nol tacqui. Anzi, se mai la sorte mel consentisse, o se mai fossi in Argo vincitor ritornato, alta vendetta ne gli promisi, e con minacce e motti acerbi acerbamente il provocai. Questo fu del mio mal prima radice; e quinci de' suoi falli e del mio duolo consapevole Ulisse, a spaventarmi, a travagliarmi, a seminar susurri si diè nel volgo, e procurarmi inciampi ond'io cadessi. E non cessò, ch'ordimmi per mezzo di Calcante... Ma dov'entro, lasso! senza profitto a fastidirvi con noiose novelle? A voi sol basta di saver ch'io son greco, già che i Greci tutti egualmente per nimici avete. Or datemi, signor, supplizio e morte qual a voi piace, ché piacere e gioia n'aranno i regi ancor d'Itaca e d'Argo". E qui si tacque. Allor brama ne venne, non che disio, di piú sapere avanti; non ben sapendo ancor, miseri noi! quanta scelleratezza e quanta astuzia fosse ne' Greci. Egli, a seguir costretto, mostrossi in prima paventoso, e poscia di nuovo assicurossi, e finse, e disse: "Hanno molte fïate i Greci, afflitti già da la guerra, e dal disagio astretti, disïato e tentato anco piú volte di qui ritrarsi, e lasciar Troia in pace. Cosí fatto l'avessero! Ma sempre or il verno, or i vènti, or le procelle gli han distornati. E pur dianzi che l'opra del caval che vedete era fornita, di nuovo in sul partire, e 'n sul far vela, di tempeste, di turbini e di nembi risonò 'l cielo, e conturbossi il mare. Onde, sospesi, Eurípilo mandammo a spïar sopra a ciò quel che da Febo ne s'avvertisse. Riportonne un empio e spaventoso oracolo; e fu questo: - Col sangue e con la morte d'una vergine placaste i vènti per condurvi in Ilio; col sangue e con la morte ora d'un giovine convien placarli per ridurvi in Grecia. - A cosí fiera voce sbigottissi, impallidissi, e tremò 'l volgo tutto, ciascun per sé temendo; e nessun certo qual di loro accennasse Apollo e 'l fato. Qui fece Ulisse in mezzo al greco stuolo con gran tumulto appresentar Calcante: e del volere in ciò de' santi numi interrogollo. Ed ei rispose in guisa che la sua fellonia, benché da tutti fusse prevista, fu però da molti simulata e taciuta, e da molti anco a me predetta: pur ei tacque ancora per dieci giomi; e scaltramente al niego si mise di voler che per suo detto fosse alcun destinato o spinto a morte. Ma poi, come da gridi astretto e vinto, di conserto con lui ruppe il silenzio, sí ch'io fui dichiarato al fin per vittima; consentîr tutti, perché tutti ancora finian con la mia morte il lor periglio. Era già da vicino il giorno orribile, in che doveano al sacrificio offrirmi: e già 'l farro e già 'l sale e già le bende erano a le mie tempie intorno avvolte, quando, rotto (io nol niego) ogni ritegno, da la morte mi tolsi: e fin ch'a' vènti desser le vele (ch'eran presti a darle) di buia notte in un pantan m'ascosi, ove nel fango infra le scarde e i giunchi stava qual mi vedete. Ora son qui privo d'ogni conforto e d'ogni speme di mai piú riveder la patria antica, i dolci figli e 'l desïato padre, che saran, lasso me! per la mia fuga, benché innocenti, ancor forse in mia vece incarcerati, e tormentati, e morti. Or io, signor, per quelli eterni dèi che scorgon di là su se 'l vero io parlo, per quella pura e 'ntemerata fede (se tra' mortali in alcun loco è tale) ond'io già tutto a rivelar ti vegno, priegoti che pietà di me ti prenda, e de' miei tanti e sí gravosi affanni ch'indegnamente io soffro". A cotal pianto commossi, e da noi fatti anco pietosi, vita e vènia gli diamo. E di sua bocca comanda il re che si disferri e sciolga; poi dolcemente in tal guisa gli parla: "Qual tu ti sia, de' tuoi perduti Greci ti dimentica omai; ché per innanzi sarai de' nostri. Or mi rispondi il vero di quel ch'io ti domando. A che fine hanno qui sí grande edificio i Greci eretto? Per consiglio di cui? Con qual avviso l'han fabbricato? È vóto? è magia? è macchina? Che trama è questa?" Avea 'l re detto a pena, quand'ei, d'inganni e d'arte greca instrutto, le già disciolte mani al cielo alzando, disse: "Voi fochi eterni e 'nvïolabili, voi fasce ond'io portai le tempie avvinte, voi sacri altari, e voi cultri nefandi, cui fuggendo anco adoro, a quel ch'io dico per testimoni invoco. A me lece ora ch'io mi disciolga, e mi dissacri in tutto da l'obbligo de' Greci. E mi lece anco che non gli ami, e che gli odii, e che divolghi quel che da lor si cela, già ch'astretto piú non son de la patria a legge alcuna. Tu, se vero io ti dico, e se gran merto di ciò ti rendo, e te, Troia, conservo, conserva a me la già promessa fede. Nel cominciar di questa guerra i Greci riposero ogni speme, ogni fidanza ne l'aiuto di Palla; e ben riposte fûr sempre, infin che l'empio Dïomede, e l'inventor d'ogni mal'opra Ulisse, il sacro tempio suo non vïolaro: come fêr quando, ne la ròcca ascesi, n'uccisero i custodi, e n'involaro il Palladio fatale, osando impuri por le man sanguinose al sacrosanto suo simulacro; e macular le intatte e 'ntemerate sue verginee bende. Da indi in qua d'ardir sempre e di forze scemâr, non che di speme; e Palla infesta ne fu lor sempre; e ne diè chiari segni e portentosi, allor ch'al campo addotta fu la sua statua, che, posata a pena, torvamente mirogli, e lampi e fiamme vibrò per gli occhi, e per le membra tutte versò salso sudore. Indi tre volte, meraviglia a contarlo! alto da terra surse, e 'mbracciò lo scudo, e brandí l'asta. Allor gridando indovinò Calcante che fuggir si dovesse, e tosto a' vènti spiegar le vele: ché di Troia in vano era l'assedio, se con altri augúri d'Argo non si tornava un'altra volta, e de la dea non si placava il nume, ch'or, per ciò fare, han seco in Grecia addotto. Onde giunti a Micene, incontinente si daranno a dispor l'armi e le genti e gli dèi che gli aíti, e gli accompagni. Poi, ripassando il mar, con maggior forza di nuovo assaliranvi e d'improvviso: cosí Calcante interpreta, e predice. Or questa mole, che tant'alto sorge, qui per consiglio di Calcante è posta in vece del Palladio, e per ammenda del nume offeso, a bello studio intesta di legni cosí gravi e cosí grandi, ed a sí smisurata altezza eretta, a fin che per le porte entro a le mura quinci addur non si possa, ove per segno e per memoria poi del nume antico riverita da voi, sacrata e cólta sia ricovro e tutela al popol vostro. Ché allor che questo dono a Palla offerto per vostra man sia vïolato e guasto, ruina estrema (la qual sopra lui caggia piú tosto) a voi vuol che ne venga, ed al gran vostro impero: ed, a rincontro, quando da voi sia dentro al vostro cerchio condotto e custodito, allor che l'Asia congiurerà con le sue forze tutte a l'esterminio d'Argo, e che tal fato sopra a' nostri nepoti in cielo è fisso". Con tal arte Sinon, con tali insidie fe' sí che gli credemmo; e quelli stessi cui non potêr né 'l figlio di Tideo, né di Larissa il bellicoso alunno, né diece anni domar, né mille navi, furon da lagrimette e da menzogne sforzati e vinti. In questa a gl'infelici un altro sopravvenne assai maggiore e piú fiero accidente; onde a ciascuno d'improvviso spavento il cor turbossi. Era Laocoonte a sorte eletto sacerdote a Nettuno; e quel dí stesso gli facea d'un gran toro ostia solenne: quand'ecco che da Tènedo (m'agghiado a raccontarlo) due serpenti immani venir si veggon parimente al lito, ondeggiando coi dorsi onde maggiori de le marine allor tranquille e quete. Dal mezzo in su fendean coi petti il mare, e s'ergean con le teste orribilmente, cinte di creste sanguinose ed irte. Il resto con gran giri e con grand'archi traean divincolando, e con le code l'acque sferzando sí che lungo tratto si facean suono e spuma e nebbia intorno. Giunti a la riva, con fieri occhi accesi di vivo foco e d'atro sangue aspersi, vibrâr le lingue, e gittâr fischi orribili. Noi, di paura sbigottiti e smorti, chi qua, chi là ci dispergemmo; e gli angui s'affilâr drittamente a Laocoonte, e pria di due suoi pargoletti figli le tenerelle membra ambo avvinchiando, sen fêro crudo e miserabil pasto. Poscia a lui, ch'a' fanciulli era con l'arme giunto in aiuto, s'avventaro, e stretto l'avvinser sí che le scagliose terga con due spire nel petto e due nel collo gli racchiusero il fiato; e le bocche alte, entro al suo capo fieramente infisse, gli addentarono il teschio. Egli, com'era d'atro sangue, di bava e di veleno le bende e 'l volto asperso, i tristi nodi disgroppar con le man tentava indarno, e d'orribili strida il ciel feriva; qual mugghia il toro allor che dagli altari sorge ferito, se del maglio appieno non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge. I fieri draghi alfin dai corpi esangui disviluppati, in vèr la ròcca insieme strisciando e zufolando, al sommo ascesero: e nel tempio di Palla, entro al suo scudo rinvolti, a' piè di lei si raggrupparo. Rinnovossi di ciò nel volgo orrore e tremore e spavento; e mormorossi che degnamente avea Laocoonte di sua temerità pagato il fio, e del furor che contra al sacro legno gli armò l'impura e scelerata mano: e gridâr tutti che di Palla al tempio si conducesse, e con preghiere e vóti de la dea si facesse il nume amico. A ciò seguire immantinente accinti, ruiniamo la porta, apriam le mura, adattiamo al cavallo ordigni e travi, e ruote e curri a' piedi, e funi al collo. Cosí mossa e tirata agevolmente la macchina fatale il muro ascende, d'armi pregna e d'armati, a cui d'intorno di verginelle e di fanciulli un coro, sacre lodi cantando, con diletto porgean mano a la fune. Ella, per mezzo tratta de la città, mentre si scuote, mentre che ne l'andar cigola e freme, sembra che la minacci. O patria, o Ilio, santo de' numi albergo! inclita in arme dardania terra! Noi la pur vedemmo con tanti occhi a l'entrar, che quattro volte fermossi, e quattro volte anco n'udimmo il suon de l'armi: e pur, da furia spinti, ciechi e sordi che fummo, i nostri danni ci procurammo: ché 'l dí stesso addotto e posto in cima a la sacrata ròcca fu quel mostro infelice. Allor Cassandra la bocca aperse, e quale esser solea verace sempre e non creduta mai, l'estremo fine indarno ci predisse: e noi di sacra e di festiva fronde velammo i templi il dí, miseri noi, che de' lieti dí nostri ultimo fue. Scende da l'Oceàn la notte intanto, e col suo fosco velo involve e copre la terra e 'l cielo e de' Pelasgi insieme l'ordite insidie. I Teucri a i loro alberghi, a i lor riposi addormentati e queti giacean securamente; e già da Tènedo a l'usata riviera in ordinanza vèr noi se ne venia l'argiva armata, col favor de la notte occulta e cheta; quando da la sua poppa il regio legno ne diè cenno col foco. Allor Sinone, che per nostra ruina era da noi e dal fato maligno a ciò serbato, accostossi al cavallo, e 'l chiuso ventre chetamente gli aperse, e fuor ne trasse l'occulto agguato. Usciro a l'aura in prima i primi capi baldanzosi e lieti, tutti per una fune a terra scesi. E fûr Tisandro e Stènelo ed Ulisse, Atamante e Toante e Macaóne e Pirro e Menelao con lo scaltrito fabbricator di questo inganno, Epèo. Assalîr la città che già ne l'ozio e nel sonno e nel vino era sepolta; ancisero le guardie; aprîr le porte; miser le schiere congiurate insieme; e diêr forma a l'assalto. Era ne l'ora che nel primo riposo hanno i mortali quel ch'è dal cielo a i loro affanni infuso opportuno e dolcissimo ristoro: quand'ecco in sogno (quasi avanti gli occhi mi fosse veramente) Ettòr m'apparve dolente, lagrimoso, e quale il vidi già strascinato, sanguinoso e lordo il corpo tutto, e i piè forato e gonfio. Lasso me! quale e quanto era mutato da quell'Ettòr che ritornò vestito de le spoglie d'Achille, e rilucente del foco ond'arse il gran navile argolico! Squallida avea la barba, orrido il crine e rappreso di sangue; il petto lacero di quante unqua ferite al patrio muro ebbe d'intorno. E mi parea che 'l primo foss'io che lagrimando gli dicessi: "O splendor di Dardania, o de' Troiani securissima speme, e quale indugio t'ha fin qui trattenuto? Ond'or ne vieni tanto da noi bramato? Ahi, dopo quanta strage de' tuoi, dopo quanti travagli de la nostra città già stanchi e domi ti riveggiamo! E qual fero accidente fa sí deforme il tuo volto sereno? E che piaghe son queste?". Egli a ciò nulla rispose, come a vani miei quesiti: ma dal profondo petto alti sospiri traendo: "Oh! fuggi, Enea, fuggi, - mi disse - togliti a queste fiamme. Ecco che dentro sono i nostri nemici. Ecco già ch'Ilio arde tutto e ruina. Infino ad ora e per Priamo e per Troia assai s'è fatto. Se difendere omai piú si potesse, fôra per questa man difesa ancora: ma dovendo cader, le sue reliquie sacre e gli santi suoi numi Penati a te solo accomanda; e tu li prendi per compagni a' tuoi fati; e, come è d'uopo, cerca loro altre terre, ergi altre mura; ché dopo lungo e travaglioso esilio l'ergerai piú di Troia altere e grandi". Detto ciò, da le chiuse arche riposte trasse, e mi consegnò le sacre bende e l'effigie di Vesta e 'l foco eterno. Spargonsi intanto per diverse parti de la presa città le grida e 'l pianto e 'l tumulto de l'armi; e rinforzando via piú di mano in man, tanto s'avanza che a l'antica magion del padre Anchise (come che fosse assai remota, e chiusa d'alberi intorno) il gran rumore aggiunge. Allor dal sonno mi riscuoto, e salgo subitamente d'un terrazzo in cima, e porgo per udir gli orecchi attenti. Cosí rozzo pastor, se da gran suono è da lunge percosso, in alto ascende, e mirando si sta confuso e stupido o foco che al soffiar d'un torbid'Austro stridendo arda le biade e le campagne; o tempestoso e rapido torrente che dal monte precipiti, e le selve ne meni e i cólti e le ricolte e i campi. Allor tardi credemmo; allor le insidie ne fûr conte de' Greci. E già 'l palagio era di Deïfòbo arso e distrutto; già 'l suo vicino Ucalegón ardea, e l'incendio di Troia in ogni lato rilucea di Sigèo ne la marina; e s'udian gridar genti e sonar tube. Io m'armo, e, forsennato, anco ne l'armi non veggio ove m'adopri. Al fin risolvo, raunati i compagni, avventurarmi, menar le mani, e ne la ròcca addurmi; mi fan l'impeto e l'ira ad ogni rischio precipitoso; e solo a mente vienmi che un bel morir tutta la vita onora. Eravam mossi; quando ecco tra via ne si fa Panto d'improvviso avanti, Panto figlio d'Otrèo, che de la ròcca era custode, e sacerdote a Febo. Questi, scampato da' nemici a pena, inverso il lito attonito fuggendo, i sacri arredi e i santi simulacri de gli dèi vinti, e 'l suo picciol nipote si traea seco."O Panto, o Panto, - io dissi - a che siam giunti? Ove ricorso abbiamo, se la ròcca è già presa?". Ei sospirando e piangendo rispose: " È giunto, Enea, l'ultimo giorno e 'l tempo inevitabile de la nostra ruina. Ilio fu già; e noi Troiani fummo: or è di Troia ogni gloria caduta. Il fero Giove tutto in Argo ha rivolto; e tutti in preda siam de' Greci e del foco. Il gran cavallo, ch'era a Palla devoto, altero in mezzo stassi de la cittade, e d'ogni lato arme versa ed armati. Il buon Sinone gode de la sua frode, e d'ogn'intorno scorrendo si rimescola, e s'aggira gran maestro d'incendi e di ruine. A porte spalancate entran le schiere senza ritegno ed a migliaia, quante né d'Argo usciron mai né di Micene. Gli altri che prima entraro, han già le strade assedïate: e stan con l'armi infeste, parate a far di noi strage e macello. Soli son fino a qui sorti in difesa i corpi de le guardie: e questi al buio fanno con lievi e repentini assalti tale una cieca resistenza a pena". Dal parlar di costui, dal nume avverso spinto, mi caccio tra le fiamme e l'armi, ove mi chiama il mio cieco furore, e de le genti il fremito e le strida che feriscono il cielo. E per compagni primieramente al lume de la luna mi si scopron Rifèo, Ifito il vecchio ed Ipane e Dimante: indi comparve il giovine Corèbo. Era costui figlio a Migdóne, insanamente acceso de l'amor di Cassandra; e, come fosse già suo consorte, pochi giorni avanti in soccorso del suocero e de' Frigi s'era a Troia condotto. Infortunato! che non avea la sua sposa indovina ben anco intesa. A questi insieme accolti, per accendergli piú mi volgo e dico: "Giovini forti e valorosi, in vano omai fia la fortezza e 'l valor vostro; poiché perduti siamo e che Troia arde, e gli dèi tutti, a cui tutela e cura si reggea questo impero, in abbandono lasciano i nostri templi e i nostri altari. Ma se voi cosí fermi e cosí certi siete pur, com'io veggio, a seguitarmi, ancor che a morte io vada, in mezzo a l'armi avventiamci, e moriamo. Un sol rimedio a chi speme non have è disperarsi". Cosí l'ardir di quegli animi accesi furor divenne. Usciam di lupi in guisa che rapaci, famelici e rabbiosi, col ventre vòto e con le canne asciutte sentan de' lupicini urlar per fame pieno un digiun covile. Andiam per mezzo de' nemici e de l'armi a morte esposti, senza riservo, e via dritti fendiamo la città tutta, a la buia ombra occulti, che l'altezza facea de gli edifici. Or chi può dir la strage e la ruina di quella notte? E qual è pianto eguale a tante occisïoni, a tanto eccidio? Troia ruina, la superba, antica e glorïosa Troia, che tant'anni portò scettro e corona. Era, dovunque s'andava, di cadaveri, di sangue, d'ogni calamità pieno ogni loco, le vie, le case, i templi. E non pur soli caddero i Teucri, ché l'antico ardire destossi, e surse alcuna volta ancora negli lor petti. I vincitori e i vinti giacean confusamente, e d'ogni lato s'udian pianti e lamenti; e questi e quelli eran da la paura e da la morte in mille guise aggiunti. Andrògeo il primo de' Greci fu ch'avanti ne s'offerse, condottier di gran gente. Egli, avvisando parte sollecitar de la sua schiera: "Affrettatevi, - disse - a che badate? che 'ndugio è 'l vostro? Altri espugnata ed arsa e depredata han di già Troia, e voi testé venite?" Avea ciò detto a pena, che 'l segno e la risposta indarno attesa, tra nemici si vide; e come attonito restando, con la voce il piè ritrasse. Come repente il vïator s'arretra, se d'improvviso fra le spine un angue avvien che prema, ed ei premuto e punto d'ira gonfio e di tosco gli s'avventi; cosí dal nostro subitano incontro sovraggiunto in un tempo e spaventato, Andrògeo per fuggir ratto si volse. Ma noi che, impauriti e sconcertati, a la sprovvista gli assalimmo in lochi a lor non consueti, in breve spazio li circondammo, e gli uccidemmo alfine: tanto nel primo assalto amica e presta ne fu la sorte. E qui fatto Corèbo d'un tal successo e di coraggio altero: "Compagni, - disse - poi che la fortuna con questo sí felice agli altri incontri ne porge aíta, a nostro scampo usiamla. Mutiam gli scudi, accomodiamci gli elmi e l'insegne de' Greci. O biasmo o lode che ciò ne sia, chi co' nemici il cerca? L'arme ne daranno essi". E, cosí detto, la celata e 'l cimier d'Andrògeo stesso e la sua scimitarra e la sua targa per lui si prese, armi onorate e conte, Cosí fece Rifèo, cosí Dimante, e cosí tutti: ché per sé ciascuno di nuove spoglie allegramente armossi. Ci mettemmo tra lor, che i nostri dii non eran nosco; e ne l'oscura notte con ogni occasïone in ogni loco ci azzuffammo con essi; e di lor molti mandammo a l'Orco, e ritirar molt'altri ne facemmo a le navi: e fûr di quelli che per viltà nel cavernoso e cieco ventre si racquattâr del gran cavallo. Ma che? Contra 'l voler de' regi eterni indarno osa la gente. Ecco dal tempio trar veggiam di Minerva, con le chiome sparse, e con gli occhi indarno al ciel rivolti, la vergine Cassandra. Io dico gli occhi, perché le regie sue tenere mani eran da' lacci indegnamente avvinte. A sí fero spettacolo Corèbo infurïato, e di morir disposto, anzi che di soffrirlo, a quella schiera scagliossi in mezzo; e noi ristretti insieme tutti il seguimmo. Or qui fessi di noi una strage crudele e miserabile e da' nostri medesmi, che la cima tenean del tempio, e dardi e sassi e travi ne versarono addosso, imaginando da l'armi, da' cimieri e da l'insegne di ferir Greci: e i Greci d'ogni intorno, tratti dal gran rumore e da lo sdegno de la ritolta vergine, s'uniro ai nostri danni. Il bellicoso Aiace, i fieri Atridi, i Dòlopi e gli Argivi, tutti ne furon sopra in quella guisa ch'opposti un contra l'altro Affrico e Bora e Garbino e Volturno accolte in mezzo han le selve stridenti o 'l mare ondoso, quando col suo tridente in fin dal fondo il gran Nereo il conturba. E tornâr anco incontro a noi quei che da noi pur dianzi sen gîr rotti e dispersi; e questi in prima scoprîr le nostre insidie, e fêr palesi le cangiate armi e gli mentiti scudi, e 'l parlar che dal greco era diverso. Cosí ne fu subitamente addosso un diluvio di gente. E qui per mano di Penelèo, davanti al sacro altare de l'armigera Dea cadde Corèbo: cadde Rifèo, ch'era ne' Teucri un lume di bontà, di giustizia e d'equitate (cosí a Dio piacque); ed Ipane e Dimante caddero anch'essi; e questi, ohimè! trafitti per le man pur de' nostri. E tu, pietoso Panto, cadesti; e la tua gran pietate, e l'ínfola santissima d'Apollo in ciò nulla ti valse. O fiamme estreme, o ceneri de' miei! fatemi fede voi che nel vostro occaso io rischio alcuno non rifiutai né d'arme, né di foco, né di qual fosse incontro, né di quanti ne facessero i Greci: e se 'l fato era ch'io dovessi cader, caduto fôra: tal ne feci opra. Ne spiccammo al fine da quel mortale assalto. Ifito e Pelia ne venner meco: Ifito afflitto e grave già d'anni; e Pelia indebolito e tardo d'un colpo, che di mano ebbe d'Ulisse. Quinci divelti, al gran palagio andammo da le grida chiamati. Ivi era un fremito, un tumulto, un combatter cosí fiero, come guerra non fosse in altro loco, e quivi sol si combattesse, e quivi ognun morisse, e nessun altro altrove: tal v'era Marte indomito, e de' Greci tanto concorso. Avean la porta cinta di schiere e di testuggini e di travi, e d'ambi i lati a la parete in alto appoggiate le scale; onde saliti e spinti un dopo l'altro, con gli scudi si ricoprian di sopra, e con le destre rampicando salian di grado in grado. A rincontro i Troiani, altri di sopra muri e tetti versando e torri intere, i travi e i palchi d'oro e i fregi tutti de la reggia e de' regi avean per armi; fermi a far sí (poich'eran giunti al fine) ch'ogni cosa con lor finisse insieme; ed altri unitamente entro a la porta stavan coi ferri bassi, in folta schiera a guardia de l'entrata. E qui di novo a sovvenir la corte, a far difesa per entro, a dare a' vinti animo e forza mi posi in core: e 'n cotal guisa il fei. Era un andito occulto ed una porta secretamente accomodata a l'uso de le stanze reali, onde solea Andromaca infelice al suo buon tempo gir a' suoceri suoi soletta, e seco per domestica gioia al suo grand'avo il pargoletto Astïanatte addurre. Quinci entromesso, me ne salsi in cima a l'alto corridore, onde i meschini facean di sopra a le nemiche schiere tempesta in vano. Era dal tetto a l'aura spiccata, e sopra la parete a filo un'altissima torre, onde il paese di Troia, il mar, le navi e 'l campo tutto si scopria de' nemici. A questa intorno co' ferri ci mettemmo e co' puntelli; e da radice ov'era al palco aggiunta, e da' suoi tavolati e da' suoi travi recisa in parte la tagliammo in tutto, e la spingemmo. Alta ruina e suono fece cadendo; e di piú greche squadre fu strage e morte e sepoltura insieme. Gli altri vi salîr sopra; e d'ogni parte senz'intermissïon d'ogni arme un nembo volava intanto. In su la prima entrata stava Pirro orgoglioso; e d'armi cinto sí luminose, e da' riflessi accese di tanti incendi, che di foco e d'ira parean lunge avventar raggi e scintille. Tale un colúbro mal pasciuto e gonfio, di tana uscito, ove la fredda bruma lo tenne ascoso, a l'aura si dimostra, quando, deposto il suo ruvido spoglio, ringiovenito, alteramente al sole lubrico si travolve, e con tre lingue vibra mille suoi lucidi colori. Seco il gran Perifante e 'l grand'auriga d'Achille, Automedonte, e lo stuol tutto era de' Sciri: e di già sotto entrati, fiamme a' tetti avventando, ogni difesa ne facean vana. E qui co' primi, avanti Pirro con una in man grave bipenne le sbarre, i legni, i marmi, ogni ritegno de la ferrata porta abbatte e frange, e per disgangherarla ogni arte adopra. Tanto al fin ne recide che nel mezzo v'apre un'ampia finestra. Appaion dentro gli atrii superbi, i lunghi colonnati, e di Priamo e degli altri antichi regi i reconditi alberghi. Appaion l'armi che davanti eran pronte a la difesa. S'ode piú dentro un gemito, un tumulto, un compianto di donne, un ululato, e di confusïone e di miseria tale un suon che feria l'aura e le stelle. Le misere matrone spaventate, chi qua, chi là per le gran sale errando, battonsi i petti; e con dirotti pianti dànno infino a le porte amplessi e baci. Pirro intanto non cessa, e furïoso, in sembianza del padre, ogni riparo, ogni intoppo sprezzando, entro si caccia. Già l'arïete a fieri colpi e spessi aperta, fracassata, e d'ambi i lati da' cardini divelta avea la porta; quand'egli a forza urtò, ruppe e conquise i primi armati; e quinci in un momento di Greci s'allagò la reggia tutta. Qual è se, rotti gli argini, spumoso esce e rapido un fiume, allor che gonfio e torbo e ruinoso i campi inonda, seco i sassi traendo e i boschi interi, e gli armenti e le stalle e ciò che avanti gli s'attraversa; in cotal guisa io stesso vidi Pirro menar ruina e strage; e vidi ne l'entrata ambi gli Atridi; vidi Ecúba infelice, ed a lei cento nuore d'intorno; e Prïamo vid'anco ch'estinguea col suo sangue, ohimè! quei fochi che da lui stesso eran sacrati e cólti. Cinquanta maritali appartamenti eran ne' suo serraglio: quale, e quanta speranza de' figlioli e de' nipoti! Quanti fregi, quant'oro, quante spoglie, e quant'altre ricchezze! e tutte insieme periro incontinente: e dove il foco non era, erano i Greci. Or, per contarvi qual di Prïamo fosse il fato estremo, egli, poscia che presa, arsa e disfatta vide la sua cittade, e i Greci in mezzo ai suoi piú cari e piú riposti alberghi; ancor che vèglio e debole e tremante, l'armi, che di gran tempo avea dismesse, addur si fece; e d'esse inutilmente gravò gli omeri e 'l fianco; e come a morte devoto, ove piú folti e piú feroci vide i nemici, incontr' a lor si mosse. Era nel mezzo del palazzo a l'aura scoperto un grand'altare, a cui vicino sorgea di molti e di molt'anni un lauro che co' rami a l'altar facea tribuna, e con l'ombra a' Penati opaco velo. Qui, come d'atra e torbida tempesta spaventate colombe, a l'ara intorno avea le care figlie Ecuba accolte; ove agl'irati dèi pace ed aíta chiedendo, agli lor santi simulacri stavano con le braccia indarno appese. Qui, poiché la dolente apparir vide il vecchio re giovenilmente armato: "O, - disse - infelicissimo consorte, qual dira mente, o qual follia ti spinge a vestir di quest'armi? Ove t'avventi, misero? Tal soccorso a tal difesa non è d'uopo a tal tempo: non, s'appresso ti fosse anco Ettor mio. Con noi piú tosto rimanti qui; ché questo santo altare salverà tutti; o morren tutti insieme". Ciò detto, a sé lo trasse; e nel suo seggio in maestate il pose. Ecco davanti a Pirro intanto il giovine Polite, un de' figli del re, scampo cercando dal suo furore, e già da lui ferito, per portici e per logge armi e nemici attraversando, in vèr l'altar sen fugge: e Pirro ha dietro che lo segue e 'ncalza sí che già già con l'asta e con la mano or lo prende, or lo fère. Alfin qui giunto, fatto di mano in man di forza esausto e di sangue e di vita, avanti agli occhi d'ambi i parenti suoi cadde, e spirò. Qui, perché si vedesse a morte esposto, Prïamo non di sé punto oblïossi, né la voce frenò, né frenò l'ira: anzi esclamando: "O scelerato, - disse - o temerario! Abbiati in odio il cielo, se nel cielo è pietate; o se i celesti han di ciò cura, di lassú ti caggia la vendetta che merta opra sí ria. Empio, ch'anzi a' miei numi, anzi al cospetto mio proprio fai governo e scempio tale d'un tal mio figlio, e di sí fera vista le mie luci contamini e funesti. Cotal meco non fu, benché nimico, Achille, a cui tu menti esser figliolo, quando, a lui ricorrendo, umanamente m'accolse, e riverí le mie preghiere; gradí la fede mia; d'Ettor mio figlio mi rendé 'l corpo esangue: e me securo nel mio regno ripose". In questa, acceso, il debil vecchio alzò l'asta, e lanciolla sí che senza colpir languida e stanca ferí lo scudo, e lo percosse a pena, che dal sonante acciaro incontinente risospinta e sbattuta a terra cadde. A cui Pirro soggiunse: "Or va' tu dunque messaggiero a mio padre, e da te stesso, le mie colpe accusando e i miei difetti, fa' conto a lui come da lui traligno: e muori intanto". Ciò dicendo, irato afferrollo, e, per mezzo il molto sangue del suo figlio, tremante e barcolloni, a l'altar lo condusse. Ivi nel ciuffo con la sinistra il prese, e con la destra strinse il lucido ferro, e fieramente nel fianco infino agli elsi gliel'immerse. Questo fin ebbe, e qui fortuna addusse Prïamo, un re sí grande, un sí superbo dominator di genti e di paesi, un de l'Asia monarca, a veder Troia ruinata e combusta; a giacer quasi nel lito un tronco desolato, un capo senza il suo busto, e senza nome un corpo. Allor pria mi sentii dentro e d'intorno tale un orror, che stupido rimasi. E, di Prïamo pensando al caso atroce, mi si rappresentò l'imago avanti del padre mio, ch'era a lui d'anni eguale. Mi sovvenne l'amata mia Creúsa, il mio picciolo Iulo, e la mia casa tutta a la vïolenza, a la rapina, ad ogni ingiuria esposta. Allora in dietro mi volsi per veder che gente meco fosse de' miei seguaci; e nullo intorno piú non mi vidi: ché tra stanchi e morti e feriti e storpiati, altri dal ferro, altri da le ruine, altri dal foco, m'avean già tutti abbandonato. In somma mi trovai solo. Onde, smarrito errando, e d'ogn'intorno rimirando, al lume del grand'incendio, ecco mi s'offre a gli occhi di Tindaro la figlia, che nel tempio se ne stava di Vesta, in un reposto e secreto ridotto ascosa e cheta: Elena, dico, origine e cagione di tanti mali, e che fu d'Ilio e d'Argo furia comune. Onde comunemente e de' Greci temendo e de' Troiani e de l'abbandonato suo marito, s'era in quel loco, e 'n se stessa ristretta, confusa, vilipesa ed abborrita fin dagli stessi altari. Arsi di sdegno, membrando che per lei Troia cadea; e 'l suo castigo e la vendetta insieme de la mia patria rivolgendo: "Adunque - dicea meco - impunita e trïonfante ritornerà la scelerata in Argo? E regina vedrà Sparta e Micene? Goderà del marito, de' parenti, de' figli suoi? Farà pompe e grandezze, e d'Ilio avrà per serve e per ministri l'altere donne e i gran donzelli intorno? E qui Priamo sarà di ferro anciso, e Troia incensa, e la dardania terra di tanto sangue tante volte aspersa? Non fia cosí; che se ben pregio e lode non s'acquista a punire o vincer donna, io lodato e pregiato assai terrommi, se si dirà ch'aggia d'un mostro tale purgato il mondo. Appagherommi almeno di sfogar l'ira mia: vendicherommi de la mia patria; e col fiato e col sangue di lei placherò l'ombre, e farò sazie le ceneri de' miei". Ciò vaneggiando, infurïava; quand'ecco una luce m'aprio la notte, e mi scoverse avanti l'alma mia genitrice in un sembiante, non come l'altre volte in altre forme mentito o dubbio, ma verace e chiaro, e di madre e di dea, qual, credo, e quanta su tra gli altri Celesti in ciel si mostra. Cotal la vidi, e tale anco per mano mi prese; e con pietà le sante luci e le labbia rosate aperse, e disse: "Figlio, a che tanto affanno? a che tant'ira? Ché non t'acqueti omai? Questa è la cura che tu prendi di noi? Ché non piú tosto rimiri ov'abbandoni il vecchio Anchise e la cara Creúsa e 'l caro Iulo, cui sono i Greci intorno? E se non fosse che in guardia io gli aggio, in preda al ferro, al foco fôran già tutti. Ah! figlio, non il volto de l'odïata Argiva, non di Pari la biasmata rapina, ma del cielo e de' celesti il voler empio atterra la troiana potenza. Alza su gli occhi, ch'io ne trarrò l'umida nube, e 'l velo che la vista mortal t'appanna e grava: poscia credi a tua madre, e senza indugio tutto fa' che da lei ti si comanda: vedi là quella mole, ove quei sassi son da' sassi disgiunti, e dove il fumo con la polve ondeggiando al ciel si volve, come fiero Nettuno infin da l'imo le mura e i fondamenti e 'l terren tutto col gran tridente suo sveglie e conquassa. Vedi qui su la porta come Giuno infurïata a tutti gli altri avanti si sta cinta di ferro, e da le navi le schiere d'Argo a' nostri danni invita: vedi poi colà su Pallade in cima a l'alta rocca, entro a quel nembo armata, con che lucenti e spaventosi lampi il gran Górgone suo discopre e vibra. Che piú? mira nel ciel, che Giove stesso somministra a gli Argivi animo e forza, e incontro a le vostre armi a l'arme incita gli eterni dèi. Cedi lor, figlio, e fuggi, poi che indarno t'affanni. Io sarò teco ovunque andrai, sí che securamente ti porrò dentro a' tuoi paterni alberghi". Cosí disse; e per entro a le folt'ombre de la notte s'ascose. Allor vid'io gl'invisibili aspetti, e i fieri volti de' numi a Troia infesti, e Troia tutta in un sol foco immersa, e fin dal fondo sottosopra rivolta. In quella guisa che d'alto monte in precipizio cade un orno antico, i cui rami pur dianzi facean contrasto a' vènti e scorno al sole, quando con molte accette al suo gran tronco stanno i robusti agricoltori intorno per atterrarlo, e gli dan colpi a gara, da cui vinto e dal peso, a poco a poco crollando e balenando, il capo inchina, e stride e geme e dal suo giogo al fine e con parte del giogo si diveglie, o si scoscende; e ciò che intoppa urtando, di suono e di ruina empie le valli. Allor discesi; e la materna scorta seguendo, da' nemici e da le fiamme mi rendei salvo: ché dovunque il passo volgea, cessava il foco, e fuggian l'armi. Poi ch'io fui giunto a la magione antica del padre mio, di lui prima mi calse e del suo scampo, e per condurlo a' monti m'apparecchiava, quand'ei disse:"O figlio, io decrepito, io misero, che avanzi ai dí de la mia patria? Io posso, io deggio sopravvivere a Troia? E fia ch'io soffra sí vile esiglio? Voi, che ne' vostri anni siete di sangue e di vigore intieri, voi vi salvate. A me, s'io pur dovea restare in vita, avrebbe il ciel serbato questo mio nido. Assai, figlio, e pur troppo son vissuto fin qui; poi ch'altra volta vidi Troia cadere, e non cadd'io. Fatemi or di pietà gli ultimi offici; iteratemi il vale, e per defunto cosí composto il mio corpo lasciate, ch'io troverò chi mi dia morte; e i Greci medesmi o per pietate, o per vaghezza de le mie spoglie, mi trarran di vita e di miseria: e se d'esequie io manco, se manco di sepolcro, il danno è lieve. Da l'ora in qua son io visso a la terra disutil peso, ed al gran Giove in ira, che dal vento percosso e da le fiamme fui dal folgore suo". Ciò memorando stava il misero padre a morte additto; e d'intorno gli er'io, Creúsa, Iulo, la casa tutta con preghiere e pianti stringendolo a salvarsi, a non trar seco ogni cosa in ruina, a non offrirsi da se stesso a la morte. Ei fermo e saldo né di proponimento, né di loco punto si cangia; ond'io pur: "L'armi!" grido, di morir desïoso. E qual v'era altro rimedio o di consiglio, o di fortuna? "Ah! che di questa soglia io tragga il piede, padre mio, per lasciarti? Ah! che tu possa creder tanto di me? Da la tua bocca tanto di sceleranza e di viltate è d'un tuo figlio uscito? Or s'è destino che di sí gran città nulla rimanga, se piace a te, se nel tuo core è fermo che né di te, né de gli tuoi si scemi la ruina di Troia; e cosí vada, e cosí fia: ch'io veggio a mano a mano qui del sangue del re tutto cosperso, e bramoso del nostro, apparir Pirro, ch'i padri occide anzi a gli altari, e i figli anzi agli occhi de' padri. Ah! madre mia, per questo fine qui salvo e difeso m'hai da l'armi e dal foco, acciò ch'io veggia con gli occhi miei ne la mia casa stessa i miei nimici e 'l mio padre e 'l mio figlio e la mia donna crudelmente occisi l'un nel sangue de l'altro? Mano a l'arme! Chi mi dà l'armi? Ecco che 'l giorno estremo a morte ne chiama. Or mi lasciate ch'io torni infra i nimici, e che di nuovo mi razzuffi con essi: ché non tutti abbiam senza vendetta oggi a perire". E già di ferro cinto, a la sinistra m'adattavo lo scudo, e fuori uscia, quand'ecco in su la soglia attraversata Creúsa avanti a' piè mi si distende, e me li abbraccia; e 'l fanciulletto Iulo m'appresenta, e mi dice: "Ah! mio consorte, dove ne lasci? S'a morir ne vai, ché non teco n'adduci? E se ne l'armi e nell'esperïenza hai speme alcuna, ché non difendi la tua casa in prima? ove Ascanio abbandoni? ove tuo padre? ove Creúsa tua, che tua s'è detta per alcun tempo?". E ciò gridando empiea di pianto e di stridor la magion tutta: quand'ecco innanzi a gli occhi, e fra le mani de gli stessi parenti, un repentino e mirabile a dir portento apparve; ché sopra il capo del fanciullo Iulo chiaro un lume si vide, e via piú chiara una fiamma che tremola e sospesa le sue tempie rosate e i biondi crini sen gia come leccando, e senza offesa lievemente pascendo. Orrore e téma ne presi in prima. Indi a quel santo foco d'intorno, altri con acqua, altri con altro, ognun facea per ammorzarlo ogn'opra. Ma 'l padre Anchise a cotal vista allegro, le man, gli occhi e la voce al ciel rivolto, orò dicendo: "Eterno onnipotente signor, se umana prece unqua ti mosse, vèr noi rimira, e ne fia questo assai. Ma se di merto alcuno in tuo cospetto è la nostra pietà, padre benigno, danne anco aíta; e con felice segno questo annunzio ratifica e conferma". Avea di ciò pregato il vecchio appena, che tonò da sinistra e dal convesso del ciel cadde una stella, che per mezzo fendé l'ombrosa notte, e lunga striscia di face e di splendor dietro si trasse. Noi la vedemmo chiaramente sopra da' nostri tetti ire a celarsi in Ida, sí che lasciò, quanto il suo corso tenne, di chiara luce un solco; e lunge intorno fumò la terra di sulfureo odore. Allor vinto si diede il padre mio; e tosto a l'aura uscendo, al santo segno de la stella inchinossi, e con gli dèi parlò devotamente: "O de la patria sacri numi Penati, a voi mi rendo. Voi questa casa, voi questo nipote mi conservate. Questo augurio è vostro, e nel poter di voi Troia rimansi". Poscia, rivolto a noi: " Fa', figliuol mio, ormai - disse - di me che piú t'aggrada; ch'al tuo voler son pronto, e d'uscir teco piú non recuso". Avea già 'l foco appresa la città tutta, e già le fiamme e i vampi ne ferian da vicino, allor che 'l vecchio cosí dicea: "Caro mio padre, adunque, - soggiuns'io - com'è d'uopo, in su le spalle a me ti reca, e mi t'adatta al collo acconciamente: ch'io robusto e forte sono a tal peso: e sia poscia che vuole: ch'un sol periglio, una salute sola fia d'ambedue. Seguami Iulo al pari; Creúsa dopo: e voi, miei servi, udite quel ch'io diviso. È de la porta fuori un colle, ov'ha di Cerere un antico e deserto delúbro, a cui vicino sorge un cipresso, già molt'anni e molti in onor de la dea serbato e cólto. Qui per diverse vie tutti in un loco vi ridurrete; e tu con le tue mani sosterrai, padre mio, de' santi arredi e de' patrii Penati il sacro incarco, che a me, sí lordo e sí recente uscito da tanta uccisïon, toccar non lece pria che di vivo fiume onda mi lave". Ciò detto, con la veste e con la pelle d'un villoso leon m'adeguo il tergo; e 'l caro peso a gli omeri m'impongo. Indi a la destra il fanciulletto Iulo mi s'aggavigna e non con moto eguale ei segue i passi miei, Creúsa l'orme. Andiam per luoghi solitari e bui: e me, cui dianzi intrepido e sicuro vider de l'arme i nembi e de gli armati le folte schiere, or ogni suono, ogni aura empie di téma: sí geloso fammi e la soma e 'l compagno. Era vicino a l'uscir de la porta, e fuori in tutto, com'io credea, d'ogni sinistro incontro; quand'ecco d'improvviso udir mi sembra un calpestío di gente, a cui rivolto disse il vecchio gridando: "Oh! fuggi, figlio, fuggi, ché ne son presso. Io veggio, io sento sonar gli scudi, e lampeggiar i ferri". Qui ridir non saprei come, né quale avverso nume a me stesso mi tolse: ché mentre da la fretta e dal timore sospinto esco di strada, e per occulte e non usate vie m'aggiro e celo, restai, misero me! senza la mia diletta moglie, in dubbio se dal fato mi si rapisse, o travïata errasse, o pur lassa a posar posta si fosse. Basta ch'unqua di poi non la rividi, né per vederla io mi rivolsi mai, né mai me ne sovvenne, infin che giunti di Cerere non fummo al sagro poggio. Ivi ridotti, ne mancò di tanti sola Creúsa, ohimè! con quanto scorno e con quanto dolor del suo consorte e del figlio e del suocero e di tutti! Io che non feci allora, e che non dissi? Qual degli uomini, folle! e degli dèi non accusai! Qual vidi in tanto eccidio, o ch'io provassi, o che avvenisse altrui, caso piú miserando e piú crudele? Qui mio figlio, mio padre e i patrii numi lascio in guardia a' compagni, ed io de l'armi pur mi rivesto, e 'ndietro me ne torno, disposto a ritentar ogni fortuna, a cercar Troia tutta, a por la vita ad ogni repentaglio. Incominciai in prima da le mura e da la porta, ond'era uscito; e le vie stesse e l'orme ripetei tutte per cui dianzi io venni, gli occhi portando per vederla intenti. Silenzio, solitudine e spavento trovai per tutto. A casa aggiunsi in prima, cercando se per sorte ivi smarrita si ricovrasse. Era già presa e piena di nemici e di foco; e già da' tetti uscian da' vènti e da le furie spinte rapide fiamme e minacciose al cielo. Torno quinci al palagio; indi a la ròcca: seguo a le piazze, a' portici, a l'asilo di Giunon, che già fatti eran conserve de la preda di Troia, a cui Fenice e 'l fiero Ulisse eran custodi eletti. Qui d'ogni parte le troiane spoglie fin de le sacristie, fin de gli altari le sacre mense, i prezïosi vasi di solid'oro, e i paramenti e i drappi e le delizie e le ricchezze tutte a gli incendi ritolte, erano addotte. D'intorno innumerabili prigioni stavan di funi e di catene avvinti, e matrone e donzelle e pargoletti, che di sordi lamenti e di muggiti facean ne l'aria un tuono; e men fra loro era la donna mia: né dove fosse, piú ripensar sapendo, osai dolente gridar per le vie tutte; e, benché in vano, mille volte iterai l'amato nome. Mentre cosí tra furïoso e mesto per la città m'aggiro, e senza fine la ricerco e la chiamo, ecco davanti mi si fa l'infelice simulacro di lei, maggior del solito. Stupii, m'aggricciai, m'ammutii. Prese ella a dirmi, e consolarmi: "O mio dolce consorte, a che sí folle affanno? A gli dèi piace che cosí segua. A te quinci non lece di trasportarmi. Il gran Giove mi vieta ch'io sia teco a provar gli affanni tuoi; ché soffrir lunghi esigli, arar gran mari ti converrà pria ch'al tuo seggio arrivi, che fia poi ne l'Esperia, ove il tirreno Tebro con placid'onde opimi campi di bellicosa gente impingua e riga. Ivi riposo e regno e regia moglie ti si prepara. Or de la tua diletta Creúsa, signor mio, piú non ti doglia: ché i Dòlopi superbi, o i Mirmidóni non vedranno già me, dardania prole, e di Prïamo figlia, e nuora a Venere, né donna lor, né di lor donne ancella: ché la gran genitrice degli dèi appo sé tiemmi. Or il mio caro Iulo, nostro comune amore, ama in mia vece; e lui conserva, e te consola. Addio". Cosí detto, disparve. Io, che dal pianto era impedito, ed avea molto a dirle, me le avventai, per ritenerla, al collo; e tre volte abbracciandola, altrettante, come vento stringessi o fumo o sogno, me ne tornai con le man vòte al petto. E cosí scorsa e consumata indarno tutta la notte, al poggio mi ritrassi a' miei compagni, ove trovai con molta mia maraviglia d'ogni parte accolta una gran gente, un miserabil volgo d'ogni età, d'ogni sesso e d'ogni grado, a l'esiglio parati, e 'nsieme additti a seguir me, dovunque io gli adducessi, o per mare o per terra. Uscia già d'Ida la mattutina stella, e 'l dí n'apria, quando in dietro mi volsi, e vidi Troia fumar già tutta; e de la ròcca in cima, e di sovr'ogni porta inalberate le greche insegne; onde né via, né speme rimanendomi piú di darle aíta, cedei; ripresi il carco, e salsi al monte».

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