lunedì 15 ottobre 2007

Inferno: la cantica piu bella della Divina Commedia


Delle tre cantiche di cui si compone la Divina Commedia, l' Inferno è senza dubbio la più conosciuta e quella che tutti considerano come la più bella. Forse questo giudizio, su cui pesa l'eredità non sempre preziosa della critica romantica, andrebbe quanto meno temperato. Resta il fatto però che la potenza drammatica della rappresentazione dell'Inferno e dei suoi dannati non sarà mai più eguagliata. E questo non per inaridimento della vena poetica ma per oggettiva condizione dell'argomento della narrazione. Ha detto Salvatore Battaglia che l' Inferno è la più realistica delle tré cantiche. Si riferiva ovviamente all'incisività delle situazioni, alla fisicità che trasuda da ogni verso, alla disperazione e alla grandezza, alla viltà e alla forza, alla tracotanza e alla commozione, a tutte quelle manifestazioni, insomma, dell'animo umano partecipe di ogni contraddizione. C'è carne e sangue nell ' Inferno dantesco.

L'uomo è rappresentato nella sua dimensione più tragica, quella di fragile vittima del peccato, anche quando la sua statura morale ne fa una gigantesca figura, capace di ritagliarsi uno spazio di luce nella tenebra che inghiotte le mille e mille anime perdute. Tutta la prima cantica è percorsa da un inestinguibile amore per la giustizia che si affranca però (e questo è un segno di innegabile modernità) da ogni categoria precostituita, e socialmente condivisa, di giudizio per affermare un più alto, rigoroso senso etico. Dante è un cristiano, come poteva esserlo un uomo del Medioevo, ligio al volere di Dio, così come trasmesso da Santa Madre Chiesa.

Ma questo non vuoi dire che rinunciasse alla sua indipendenza di giudizio, ne che la sua ortodossia gli impedisse di riconoscere la distanza che spesso s' interponeva tra quella Chiesa e il Dio di cui si diceva ambasciatrice. Dante, in ciò autentico laico, non si piega al dogma dell'infallibilità papale; non si mostra suddito riverente dell'autorità religiosa, disarmato di ogni senso critico. Al contrario, condanna (e lo fa con acerbo piacere) papi, cardinali e frati corrotti, mentre salva con la sua poesia altri peccatori, che per coerenza con le premesse teologiche da cui era partito deve per forza consegnare alla dannazione eterna, innalzandoli nella nostra considerazione e facendo sì che siano tanto presenti in noi, specchio alla nostra umanità, da non poterli guardare e ricordare senza un po' d'affetto.

Sono i due sfortunati amanti. Paolo e Francesca; è l'orgoglioso e giusto nemico, Farinata; è il padre dolente, conte Ugolino; è il campione dell'intelletto e dell'inquietudine, il gigantesco Ulisse. Abbiamo parlato di premesse teologiche. Non si può tralasciare questo aspetto del poema, che, oltretutto, è peculiare dell'epoca in cui è stato redatto. La Commedia è un grande poema sacro che ha come fine quello di additare all'uomo le vie della salvezza e quelle della dannazione, concepito come un monumentale exemplum di quanto attende l'anima dopo la morte del corpo. Sarebbe sbagliato perciò liquidare le parti, per dire così, meno poetiche; quelle che più rivelano il debito contratto con il romanzo teologico, cosa che hanno fatto i critici romantici .

Gli aspetti strutturali della Commedia formano parte essenziale del poema, ne sono lo scheletro su cui si modellano poi i grandi temi e i grandi momenti narrativi Grandi momenti che, oltre a costituire una non secondaria ragione di quel fascino unanimemente riconosciuto Inferno, sono pure uno degli elementi cardine della sua forza ammonitrice. Accanto all'umanità spoglia e degradata che riempie di sé i cerchi infernali, come una tragica nota paesaggistica, si levano, scultoree, alcune figure (come quelle già nominate) in un contrasto di grande impatto sul piano poetico, ma soprattutto su quello morale.

Non basta, vuol dirci Dante, essere eminenti o di fine spirito per salvarsi, se non si riconosce la linea sottilissima che ci divide dall'errore. Magnifico risultato della capacità rappresentativa del verso dantesco è la complessità psicologica dei personaggi cui da vita, ritratti non come esemplificazioni del peccato, piatte creature necessarie al dispiegamento di una furia moralizzatrice tanto convenzionale quanto didascalica. Le figure dantesche sono esseri umani a tutto tondo, palpitanti nella loro insanabile dualità, che è poi infinita gamma di gradazioni, sospesi tra nobiltà e peccato, salvezza e perdizione come tutti noi. Il tragico fallimento della prova cui furono chiamati di fronte al peccato può essere anche il nostro; e la grande lezione che ci offre Y Inferno è, oltre all'anelito di giustizia che ogni uomo cosciente dovrebbe nutrire, nel senso di tolleranza e di pietà, non già del peccato, ma della fragilità umana.

«La terribile fatalità della sorte umana non è tanto nel vizio assoluto, quanto in questa mistione di virtù e di peccato è per queste ragioni che l'Inferno di Dante lo sentiamo dentro di noi, così come lui voleva, nel tessuto quotidiano del nostro vivere, che nessuna ipocrisia o lusinga potrà mai dissimulare».

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